Venerdì Carol ha pubblicato un post per pubblicizzare il suo progetto di lettura critica de L’alba di tutto (per maggiori info, clicca qui). All’interno del post c’era un light dissing nei confronti di Entropy For Life, famoso divulgatore e soprattutto personaggio social molto apprezzato dalla redazione di questa newsletter - tanto che gli abbiamo dedicato la sezione gossip della prima puntata di CICLOSTYLE podcast (ascoltala qui). Nel post, Carol proponeva a Giacomo-Entropy un confronto sul libro, dato che i due hanno prospettive molto diverse su L’alba di tutto.
Discutere di qualcosa è la modalità più potente che abbiamo per generare nuova conoscenza. Confrontarci con chi la pensa diversamente da noi, controbattere ad argomentazioni e idee, far incontrare valori differenti… Ma anche dibattere animatamente, fare dissing, litigare. È il potere generativo del conflitto che, in forme diverse, è sempre stato un potente antidoto contro l’immobilismo e il conformismo.
Questo pensiero, ovvero il fatto che è attraverso la discussione che generiamo nuova conoscenza, è alla base di moltissimi libri di Graeber: principio ordinatore dell’Illuminismo, la discussione razionale e laica senza dogmi (religiosi) ha animato dapprima le discussioni fra intellettuali nativi e missionari in Nord America, per poi approdare nei salotti francesi (vedi capitolo 2 de L’alba di tutto). Questa è una tesi che Graeber esplora anche nel suo libro sui pirati (L’utopia pirata di Libertalia), nel quale la società piratesca, libertaria per eccellenza, viene descritta come topos narrativo - quasi onirico - elaborato per rappresentare valori e ideali propri dell’Illuminismo: libertà e uguaglianza, in primis.
Ma anche in Critica alla democrazia occidentale (libro in analisi questo mese sul Patreon di Carol), Graeber mostra come la vera democrazia sia quella partecipata, e non il semplice esercizio del voto. È dalla discussione di prospettive diverse sul mondo e sulla realtà che è possibile non solo comprendere il pensiero dell’altro, ma anche e soprattutto che i rispettivi punti di vista si contaminino vicendevolmente per arrivare a una risposta finale di sintesi e negoziazione delle diverse posizioni. E non un voto che, per quanto partecipato, non fa altro che dividere la realtà in bianco o nero e lasciare felici solo alcuni e scontenti altri.
Il valore della discussione è esplorato anche in un’altra lettura che abbiamo fatto recentemente, Il potere della parola di Mariano Sigman, neuroscienziato che, fra le altre cose, sostiene che le migliori decisioni in assoluto che possiamo prendere sono quelle che nascono dal confronto con altri. Solo cieco ottimismo? Tutt’altro, Sigman l’ha dimostrato con un esperimento®️. Ha sottoposto a qualche migliaio di persone un quiz con domande tipo “quanto è alta la torre Eiffel?” o “quanti gol sono stati segnati negli ultimi mondiali di calcio?”, domande quindi non esclusivamente nozionistiche, ma in cui è necessario avere una buona capacità di astrazione e di stima. In un secondo momento, ha radunato le persone in gruppi e ha dato loro qualche minuto per discutere. La qualità delle risposte, dopo il confronto, è salita enormemente, anche più della media delle risposte dei singoli: il dibattito aveva accresciuto la conoscenza generale.
Non tutti i dibattiti, però, funzionano così bene. Sono necessarie alcune accortezze. Innanzitutto, una discussione non è un’arena in cui si stabilisce chi è retoricamente più bravo; una buona discussione non ha un vincitore e un vinto, ma prevede sempre una negoziazione (e qui, come detto, il buon Graeber ha tanto da raccontarci). Inoltre, è necessario dialogare, procedere per botta e risposta, invece che gettarsi in interminabili monologhi che non fanno altro che polarizzare le reciproche idee; insomma, incontriamoci e parliamone, guardandoci negli occhi, assumendoci la responsabilità del ruolo e considerando chi abbiamo di fronte un essere umano, in carne e ossa. Infine, ci vuole coraggio, perché la differenza fra un sano dibattito e un alterco violento è la nostra propensione a sostenere il conflitto.
Il conflitto ci fa paura, perché lo immaginiamo come una battaglia in cui una delle due parti vince e l’altra perde, ma non è per forza così: quello è un tipo di conflitto, sicuramente violento e distruttivo, che tutti quanti cerchiamo di evitare. Ma attenti alla trappola: per non scendere in guerra, non dobbiamo compiere l’errore di evitare discussioni e conflitti - che anzi spesso sono il modo migliore per evitarla.
Discutere di qualcosa, oltre a generare nuova conoscenza, serve a incontrarsi. Non siamo più due rancorosi capi-clan che passano la vita a sparlarsi alle spalle, alimentando l’odio reciproco, ma diventiamo due persone che hanno voglia di fare passi in avanti. Non è un gioco di posizionamento, ma la volontà di mettersi in discussione. E questo genera consenso, abbassa i livelli di insicurezza sociale e produce armonia. Armonia, nella mitologia greca, è la figlia di Ares e Afrodite, cioè della guerra e dell’amore. Non esiste armonia ignorandosi, andando ciascuno per la sua strada, ma confrontandosi (Ares) con spirito costruttivo (Afrodite).
In gioco c’è sicuramente questo senso di concordia, ma anche qualcosa in più, cioè il modo in cui concepiamo il sapere. Il modello tradizionale di conoscenza vorrebbe un continuo alternarsi di momenti destruens, in cui smontiamo teorie precedenti, con azioni costruens, in cui sosteniamo le nostre. Un’idea un po’ ingessata, che oggi non funziona più nel dare un senso alla complessità. Forse, come sostiene Feyerabend in Contro il metodo, ha più senso immaginarsi in un eterno conflitto, in un confronto senza fine, che lui chiama “Anarchismo metodologico”: per affrontare un mondo che va sempre più veloce, abbiamo bisogno di immaginarci in un costante dialogo con l’altro, dove l’unica vittoria è… andare avanti.
La redazione di Ciclostyle non teorizza soltanto questa modalità operativa, ma la mette in pratica con gran divertimento. Per averne una prova, attendete la puntata del podcast di domenica prossima (chi è sostenitore a pagamento può vederla in anteprima, con tanto di dietro le quinte, mercoledì 24 alle ore 14.00): ci sarà di che discutere!
Mi viene in mente una domanda: come si riesce ad avere un dibattito costruttivo (escludo le litigate, che non servono a nulla) quando le persone danno significati diverse alle parole? Si vede spesso online come ci siano profonde differenze proprio nell'interpretazione delle parole stesse. E come si fa quando non si è d'accordo nemmeno sui fatti, faccio l'esempio un po' paradossale dei terrapiattisti.
Mi viene in mente quello che ha scritto Geertz in un saggio in Interpretazione di culture: "i monologhi valgono poco qui, perché non vi sono conclusioni da riportare, ma soltanto una discussione da sostenere". Sempre bello leggervi :)