#130 - Il ballo della steppa
Una guida all'ascolto del podcast "L'invasione" (e di tutto quello che riguarda l'indoeuropeo).
“Ce lo avete chiesto in tantissimy” è la frase che ogni influencer prima, o poi, si trova a pronunciare. Con quel misto di gioia e di preoccupazione: la prima perché si sente importante, perché gli fa credere che la sua opinione, in qualche modo, sia autorevole o anche solo interessante; la seconda perché alla fine si trova a doversi fare un’idea su cose che non avrebbe così tanta voglia di leggere o guardare. E la redazione di Ciclostyle sta per regalarvi un dittico di tutto rispetto, proprio a partire da vostre richieste: il podcast del Post L’invasione e la trasmissione di Alberto Angela Meraviglie d’Africa. Per quest’ultima vi diamo appuntamento a domenica prossima, mentre questa settimana ci concentriamo su L’invasione.
Attenzione, prima di cominciare. Abbiamo ascoltato solo la prima puntata del podcast (Carol in realtà ha sbirciato un po’ più a fondo, ma non l’ha comunque finito), quindi più che farne una (noiosa e giudicante) recensione ci limiteremo a proporvi una (speriamo fresca e utile) avvertenza prima dell’ascolto. Perché quando si maneggiano certi temi è importante partire col giusto spirito critico, pena il diventare vittima di una narrazione che definire “antica” è dire poco. Di quale narrazione parliamo? Di quella indoeuropea.
L’invasione, infatti, ambisce a ricostruire lo stato dell’arte circa gli studi sulla lingua, la cultura e il popolo indoeuropeo. E cosa sarebbe, questo popolo indoeuropeo? L’antenato di latini, greci, celti, germani, slavi, armeni, iranici, indiani e molti altri gruppi etnici che, in soldoni, a un certo punto avrebbero dominato l’Europa e parte dell’Asia (e che, più recentemente, avrebbero invaso anche le Americhe e l’Oceania), tutti accomunati da una proto-lingua comune… l’indoeuropeo, appunto.
Affascinante, non è vero? Come ogni domanda sulle origini (“chi siamo?”, “da dove veniamo?”, “chi ci ha mandati?”), esercita su di noi un’attrazione quasi morbosa, come se tutto ciò fosse un elemento fondamentale della nostra cultura: risalire il più indietro possibile e stabilire lì l’atto di fondazione della nostra identità. Non giudico: ci ho fatto su un podcast pure io, sebbene con un taglio e presupposti abbastanza diversi. Una delle cose più interessanti della prima puntata de L’invasione è che problematizza proprio questo punto: racconta quando e come abbiamo iniziato a interessarci della questione indoeuropei, e quali implicazioni politiche ci sono dietro.
Tutto nasce durante il Romanticismo, quando cementificare il rapporto fra lingua, cultura materiale e sangue diventa una necessità fondamentale per i nascenti stati-nazione. E si rafforza ancora di più nella prima metà del Novecento, quando le teorie razziali diventano un palinsesto ideologico fondamentale per robine come il fascismo e il nazismo. Che deliberatamente pongono gli indoeuropei (o ariani) al vertice dell’umanità.
Il podcast, dicevamo, sottolinea molto bene questa matrice, ma poi sembra scivolare in una specie di positivismo (targato “Il Post”) secondo cui “ora però studiamo queste cose in modo scientifico, secondo un metodo” e quindi di problemi non ce ne sono più. E tutty y lettory di Ciclostyle lo sanno bene: i problemi ci sono sempre e comunque. Soprattutto perché la cosa tragica è che (spoiler) le conclusioni del podcast sembrano essere identiche a quelle del 1800; tuttavia ora c’è il metodo scientifico™️ che conferma che lingua, cultura materiale e DNA concordano nel dirci il luogo d’origine (o, perlomeno l’avamposto più antico che riusciamo a ricostruire) del proto-indoeuropeo.
Di conseguenza, a seguito dell’ascolto de L’invasione, a noi sorge una domanda, ovvero - ma con tutti gli argomenti di linguistica e archeologia potenzialmente interessanti, ma perché andare a ripescare un argomento che, seppur interessante, è figlio (o nipote) di un paradigma così antiquato?
Lo diciamo subito: la parte linguistica funziona benone, è spiegata riccamente e si capisce anche in modo chiaro. Non è un caso che uno degli autori del podcast sia Riccardo Ginevra, linguista e glottologo. E infatti il problema è altrove, se si considera la cosa da una prospettiva più ampia. Ok, molte lingue attualmente parlate hanno una serie di somiglianze che ci possono ragionevolmente far pensare di essere derivazioni da un’unica lingua antica, diversificatasi e ibridatasi nei millenni. Ma una lingua è un popolo? Un* expat italian* in Portogallo che fa ricerca in inglese a che popolo appartiene? Sicuramente il podcast tratta in modo meno semplicistico di così la questione, problematizza e contestualizza, ma la frase con cui si chiude la puntata (“a ogni lingua corrisponde una comunità di persone”) ci fa stare con le antenne drizzate… E questo è l’invito che facciamo anche a voi.
Probabilmente per chi segue il Gruppo di lettura libertario di Carol, che sta leggendo L’alba di tutto di Graeber e Wengrow, si renderà conto piuttosto chiaramente di alcune cadute di stile che denotano un certo modo di pensare alla preistoria ormai datato. Sto parlando della divisione fatta con l’accetta fra “cacciatori-raccoglitori” e “agricoltori”. Questa divisione apparentemente neutra, che viene costantemente ribadita in diverse puntate del podcast, sottintende il fatto che i cacciatori non conoscessero l’agricoltura, introdotta da popolazioni che, invece “l’avevano già scoperta”. È un falso storico quello di pensare che l’agricoltura si sia imposta sulla caccia e che, quindi, si tratti di una modalità di sopravvivenza posteriore e, in un certo qual modo, più evoluta della caccia.
Si tratta tuttavia di uno stereotipo talmente presente nel nostro pensiero, che Graeber e Wengrow ci hanno scritto un tomo di 700 pagine per sfatare questo mito. E continuano a cascarci, fra gly altry, anche storicy, genetisty, linguisty, archeology… Al di là del fatto che decidere di dividere le popolazioni in base a come si procurano il cibo, è un parametro totalmente arbitrario, che poco ci dice sulla storia e la cultura di queste popolazioni. Anzi, rischia di sviare verso orizzonti erronei. Se vuoi iscriverti al Gruppo di lettura di Carol, clicca qui!
Un’altra questione che vogliamo farvi notare, in modo tale che possiate farci caso quando ascolterete il podcast, è la iper-semplificazione che propone delle teorie accademiche presentate, purtroppo molto comune della divulgazione made in Italy®. Nonostante si chiarisca in più punti che l’indoeuropeistica sia un campo complesso, ancora oggi in discussione, le teorie vengono presentate come se fossero delle squadre di calcio da tifare, più che delle ipotesi, e, di conseguenza, si gioca a chi vince. Ora, per quanto le schermaglie accademiche possano spesso apparire come partite di briscola fra vecchi bacucchi al bar, tuttavia questo non è il senso del sapere scientifico. E, soprattutto, c’è modo e modo di presentare un’argomentazione.
A noi pare che, in modo piuttosto trasversale, molte fra le persone che si occupano di divulgazione scientifica abbiano come primo obiettivo quello di dare delle risposte certe, entrando così in piena contraddizione circa ciò che il sapere scientifico fa, ovvero dubitare e fare domande. E un’ulteriore pulce che vogliamo mettervi nell’orecchio è che, nonostante la retorica usata da gran parte della divulgazione sia quella di invitare l’ascoltatore a farsi delle domande, ciò che nei fatti la divulgazione fa è proporre “fatti” e “dati”, spremuti fuori da studi non solo complessi ma che sono in itinere, quindi non ancora conclusi.
Non è un caso che le due voci del podcast (quelle dei due autori, un giornalista e un ricercatore in linguistica), a volte, sembrano quasi contraddirsi, proprio perché i paradigmi soggiacenti ai due autori sono diversi: il linguista cerca di dare un quadro complesso, in cui le risposte non esistono (e in alcuni casi nemmeno interessano!), e dall’altra il giornalista invece offre solide certezze, pur ammettendo che gli studi sono ancora in corso.
Speriamo con queste breve note introduttive di avervi messo la pulce nell’orecchio; come sempre quello che ci interessa non è ergerci a giudicy del bello e del brutto, del giusto e dello sbagliato (come detto sopra, la concorrenza sarebbe soverchiante), ma darvi elementi per diventare voi stessy gran prafessionisty del pensiero critico e del dubbio. Anche se siamo sicuri, dai materiali promozionali che abbiamo visto, che la settimana prossima con Albertone nazionale non riusciremo a essere così lucidi, sereni e polite…
Per consolarci, sappiate che a fine mese faremo uscire un bel numero sulla tredicesima edizione di Masterchef - l’unica trasmissione che realmente interessa alla redazione di questa newsletter. Perché le riflessioni più interessanti si nascondono dove meno ve le aspettate… E voi avete già ascoltato L’invasione? Cosa ve ne è parso? Fatecelo sapere nei commenti! E se avete altri podcast da consigliarci, dateci dentro!
La solita linea editoriale de “la scienza è un processo in divenire, un puzzle di tanti pezzetti, però la verità è questa, stacce”
Finalmente ho ascoltato il podcast e, se dal punto di vista della linguistica non mi pare particolarmente problematico (a parte le semplificazioni giornalistiche e la struttura a scatole cinesi con un'ultima puntata che avrebbe potuto essere una puntata unica), dal punto di vista archeologico è abbastanza disastroso a partire dalla divisione fatta con l'accetta fra agricoltori e cacciatori-raccoglitori, fino ad arrivare alla continua insistenza sul concetto di cultura archeologica che chiamarlo datato è un complimento. Anche io ho percepito questa volontà giornalistica stile Post di snocciolare dati per sostenere verità assolute, un tentativo decisamente fallito con questo podcast.