#189 - Perché non riusciamo a non giudicare?
L'antropologia svela il nostro punto debole: riconoscere i nostri giudizi per vedere davvero l'altro
Il box domande del weekend (nelle stories di Carol) spesso ci offre la possibilità di approfondire tematiche interessanti e sfaccettate. Questo fine settimana una follower ha posto questa domanda: "È veramente possibile avere uno sguardo antropologico privo di qualsiasi giudizio verso l'altro?"
Una domanda apparentemente semplice, ma che tocca il cuore stesso dell'approccio antropologico e, più in generale, del nostro modo di relazionarci con la diversità.
Il giudizio nell'incontro con l'altro
La risposta breve è: no, non è possibile liberarci completamente dei nostri giudizi. Ma questa non è una resa. Al contrario, è l'inizio di un percorso molto più profondo.
Il punto non è non avere giudizi, fingerci scienziati/dèi con una prospettiva neutra, un occhio assoluto, ma, al contrario, riconoscere i nostri giudizi, comprenderli e far sì che non ci diano una prospettiva falsata nei confronti dell'altro. L'antropologia parte dal presupposto che sia impossibile avere uno sguardo neutro o privo di bias, illusione che ha a lungo abitato le scienze naturali… e che continua a serpeggiare nella provincialissima divulgazione scientifica italiana (ops, lo abbiamo scritto). La nostra conoscenza è sempre situata, perché le nostre categorie culturali non sono come una maglietta che possiamo toglierci e rimetterci a piacimento. Sono piuttosto categorie-pelle, senza le quali non potremmo esistere, ma che possiamo allenare a riconoscere.
Non potremmo esistere come esseri umani senza categorie estetiche, categorie che ci dicono cosa è commestibile e cosa non lo sia, cosa sia giusto e sbagliato, sporco o pulito, legale e illegale ecc. Questi valori (o costrutti culturali), ben lontani dall’essere universali, sono culturalmente plasmati e definiti. In questo senso le nostre categorie ci definiscono: non sono tuttavia solo una gabbia limitante, ma possono essere una risorsa per capire meglio chi siamo attraverso l’incontro con l’altro. Come funziona questa conoscenza situata? E come sfruttarla a nostro vantaggio?
Conoscenza situata e riflessività
Donna Haraway, filosofa e teorica femminista, ha coniato il concetto di "conoscenza situata" proprio per sottolineare come ogni sapere sia inevitabilmente ancorato a un contesto specifico: storico, sociale, corporeo e culturale. Non esiste un punto di vista che possa reclamare l'oggettività assoluta.
L'antropologia contemporanea ha fatto tesoro di questa consapevolezza, sviluppando la pratica della "riflessività etnografica": l'antropologo non pretende più di essere un osservatore invisibile e neutrale, ma riconosce e analizza la propria posizione, la propria presenza, i propri pregiudizi e le proprie reazioni emotive come parte integrante della ricerca.
L'esercizio a cui allena l'antropologia (la famosa "lente" di cui Carol parla spesso su Patreon) è esattamente quello di mettere a fuoco le nostre categorie (i nostri pregiudizi, bias, la nostra pelle) a partire dal confronto con le categorie-pelle degli altri.
Morale vs senso critico
Ma perché è così difficile accettare di avere delle categorie di pensiero, dei valori relativi, dei preconcetti? Perché ci fa sentire sbagliati constatare che il nostro punto di vista è parziale e soggettivo? Sicuramente un paio di secoli di positivismo non hanno aiutato: la prospettiva che conoscere il mondo sia qualcosa di iscrivibile dentro leggi universali e matematiche è ancora dominante.
Forse, però, c’è qualcosa in più, e ha a che fare con una certa impostazione “morale” del modo in cui guardiamo il mondo. A volte è come se il problema di fondo della conoscenza fosse quello di etichettare ogni cosa come “giusta” o “sbagliata”. E niente ferisce di più che scoprire di essere “quelli sbagliati”. L’antropologia (e qualsiasi altro sguardo critico sul mondo), però, ci invitano a fare qualcosa di diverso, cioè a esplorare questo senso morale per comprenderne le ragioni.
E dunque più che di una disciplina che sappia discriminare tra il vero e il falso, fra il giusto e lo sbagliato, quello di cui abbiamo bisogno è un terreno per esercitare il nostro senso critico, dove “critico” sta proprio a indicare un pensiero che sa mettersi in crisi da solo, inquieto, incapace di fermarsi a una e una sola risposta.
Un esempio: la poligamia
Prendiamo come esempio la reazione di molti occidentali di fronte alla pratica della poligamia in alcune culture. Il nostro primo impulso, formato in un contesto dove la monogamia è l'unica forma riconosciuta di matrimonio e dove la parità di genere è (almeno formalmente) un valore fondamentale, potrebbe essere di condanna morale.
Cosa accade quando applichiamo la lente antropologica?
Riconosciamo il giudizio: "Trovo la poligamia inaccettabile perché mi sembra una forma di oppressione verso le donne" è un giudizio che nasce dalle mie categorie morali occidentali contemporanee (nonché da una grossa ignoranza e pregiudizio nei confronti del mondo musulmano).
Contestualizziamo la pratica: In alcune società, la poligamia si è sviluppata in contesti specifici, per questioni sia pratiche sia culturali non dissimili dalle ragioni per cui in altre parti del mondo, invece, si è sviluppata la monogamia. Sono, semplicemente, due forme diverse di unioni familiari e organizzazione sociale. Inoltre, la poligamia, non è limitata al mondo musulmano ma a molte altre società umane e, in alcune società, prevede che siano le donne ad avere più partner maschili in alcune società umane. La poligamia si divide fra poliandria e poliginia: nel primo caso una donna può avere più mariti/partner, nel secondo un uomo può avere più compagne.
Esploriamo le diverse esperienze: Alcune donne in contesti poliginici descrivono esperienze di solidarietà femminile, condivisione del carico domestico e maggiore autonomia personale rispetto a modelli monogamici in cui sono sole nel gestire casa e famiglia.
Riflettiamo sulla nostra storia: La monogamia occidentale ha anche una storia complessa, spesso segnata da doppi standard morali, relazioni extraconiugali nascoste e disuguaglianze di potere.
Consideriamo i valori sottostanti: Possiamo riconoscere che il valore della dignità e dell'autodeterminazione delle donne è fondamentale, pur vedendo che può manifestarsi in modi diversi in contesti diversi. L'antropologo non arriva a concludere che "tutte le pratiche sono ugualmente valide" in un relativismo acritico. Piuttosto, riconosce la complessità, sospende il giudizio immediato, e cerca di comprendere i significati e le esperienze vissute dalle persone coinvolte.
Dalla condanna alla comprensione
Questo non significa abbandonare i propri valori morali o la capacità critica. Significa piuttosto trasformare il nostro primo impulso di giudizio in una curiosità genuina. Perché quelle persone agiscono così? Quali sono i significati che attribuiscono alle loro azioni? Come vivono queste esperienze?
Partendo dal presupposto che tutte le conoscenze e tutti i punti di vista sono sempre situati e mai assoluti, saremo in grado di essere meno giudicanti verso l'altro e anche nei confronti di noi stessi. A quel punto, l'esercizio diventa trovare un ponte comunicativo che faccia coesistere prospettive diverse, non decidere quale sia migliore delle altre.
Poligamia vs poliamore: lo stesso fenomeno, due giudizi
Vale la pena notare come spesso applichiamo giudizi completamente diversi a pratiche sostanzialmente simili, solo perché provenienti da contesti culturali più o meno vicini a noi. Prendiamo ad esempio il crescente interesse occidentale verso il poliamore e le cosiddette "non-monogamie etiche". Quando sono praticate in contesti urbani occidentali, queste relazioni multiple consensuali vengono celebrate come forme evolute di amore, espressioni di libertà personale e autodeterminazione. Eppure, quando forme simili di relazioni non monogamiche (quindi poligamiche) esistono in contesti del Sud globale, le etichettiamo come "poligamia" e le consideriamo automaticamente oppressive, arretrate o problematiche.
Questa disparità di giudizio rivela un pregiudizio profondo, radicato in dinamiche di razzismo ed etnocentrismo: ciò che "noi" facciamo è evoluto, progressista e frutto di scelta consapevole; ciò che "loro" fanno è primitivo, coercitivo e bisognoso di essere "civilizzato". Una persona poliamorosa che taccia la poligamia di essere arretrata non è dissimile da una persona monogamica che giudica l’Islam come arretrato e oppressivo.
La lente antropologica ci invita a riconoscere questa doppia misura e a interrogarci: perché consideriamo il poliamore occidentale contemporaneo come espressione di autonomia individuale, mentre presumiamo che le donne in unioni poligamiche tradizionali non abbiano agency? Riconoscere questo bias non significa equiparare acriticamente tutte le pratiche relazionali, ma piuttosto esaminare con onestà intellettuale i nostri giudizi differenziali e le strutture di potere che li informano.
Come possiamo esercitare questa capacità ogni giorno?
La lente antropologica non ci rende neutrali, ma ci rende più consapevoli, più curiosi e, in definitiva, più capaci di costruire ponti autentici con chi è diverso da noi.
Se questo argomento ti interessa, sappi che dedicherò l’incontro di CAOS del mese di aprile a questo tema. Il workshop avrà come finalità quella di offrire esempi pratici e concreti per applicare la lente antropologica nella nostra vita quotidiana… ed essere meno giudicanti nei confronti del prossimo.
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E voi, avete mai sperimentato come il riconoscimento dei vostri giudizi vi ha permesso di vedere l'altro in modo nuovo? Scriveteci le vostre esperienze, siamo curiosi di conoscerle!
📺 Carol sta guardando: The White Lotus, Pechino Express. Ultimamente ha visto Adolescence, su Netflix, che consiglia a tutty quanty.
📖 sta leggendo: Come pensano le foreste: per un’antropologia oltre l’umano
📺 Enrico sta guardando: The white lotus, Only murders in the building, Zero day
Vi ricordiamo che la prossima domenica andrà in onda la quinta puntata di CICLOSTYLE PODCAST a tema viaggi… vi aspettiamo numerosy!